domenica 28 gennaio 2024

IL CACCIATORE, 46 ANNI DOPO

La prima volta che vidi Il Cacciatore fu alla sua uscita nelle sale, nel 1979 (il film era uscito negli USA nel 1978). Avevo sedici anni, e fu un’esperienza travolgente. Per questo ero molto curioso di rivedere il film sul grande schermo, anche se tra molteplici visioni in VHS e in DVD nell’arco di quarant’anni lo conosco praticamente a memoria.

Che impressione mi ha fatto, dopo decenni? Quasi la stessa. È sempre un filmone. E, da spettatore più navigato del sedicenne di allora, ho potuto apprezzare meglio la straordinaria abilità di Cimino sia nel girare scene di massa – il matrimonio, ma anche l’assalto all’ambasciata a Saigon – che nel dirigere un cast strepitoso e tirare fuori il meglio non solo da attori all’epoca già affermati (De Niro e Cazale), ma anche da sconosciuti: Meryl Streep era solo al secondo film per il grande schermo. Savage aveva alle spalle una manciata di B-movies e un po’ di tv, così come Dzundza, e l’unica perla nel curriculum di Walken era un piccolo ruolo in Io e Annie. Chuck Aspegren, poi, non era nemmeno un attore, ma un operaio siderurgico prima reclutato come consulente e poi arruolato nel cast; nel quale peraltro non sfigura affatto, col suo tormentone “D’accordissimo!” (Fuckin’A! in originale). 

Per quanto nel 1979 fossi solo un adolescente, ricordo bene l’ondata di polemiche feroci che accompagnò il film, e soprattutto la sua premiazione agli Oscar: il film vinse ben cinque statuette, tra cui quelle per miglior film, miglior regia, migliore attore non protagonista (Walken). Cimino fu accusato di avere rappresentato i vietcong con stereotipi razzisti, e soprattutto di essere colpevole del reato di falso storico: non esistono testimonianze di prigionieri americani torturati dai vietcong con la roulette russa. Ciò che sfuggiva agli indignati di allora, ovviamente, era qualcosa evidente oggi più di ieri. Il cacciatore non è un film razzista. E non è nemmeno un film “politico”, non è – o è solo in piccola parte - uno statement polemico su una guerra “sbagliata”, a differenza di altri “vietnamovies” come Tornando a casa, che lo precedette di poco, e dei film che lo seguirono: Apocalypse Now (1979), Platoon (1986), Full Metal Jacket (1987), Vittime di guerra (1989), Nato il 4 luglio (1989).

Il cacciatore porta la tragedia della guerra a un livello universale, quasi metafisico. Non racconta “la guerra del Vietnam”, racconta la guerra: una catastrofe che travolge persone qualsiasi, né meglio né peggio di altre, i giusti e gli ingiusti. Affrontare una guerra non è poi tanto diverso, alla fine, dall’essere colpiti da un terremoto, dall’eruzione di un vulcano, da una tsunami. Dunque, il film di Cimino racconta la precarietà delle nostre esistenze, in balia di eventi che non possiamo controllare. E racconta della reazione di ognuno alla tragedia: c'è chi la scansa (Stan), chi soccombe per fatalità (Steve) o per scelta (Nick), e infine chi fa appello a tutte le proprie forze (Mike), reagisce e cerca di rimettere insieme i cocci.

Occorre “un colpo solo” per abbattere il cervo. Mike se ne fa un punto d’onore e lo ricorda agli amici, come se la morte dell’animale fosse in questo mod oemendata, resa corretta; fingendo di ignorare che il cervo, a differenza dell’uomo, non è armato di fucile, e la lotta è impari. Poi sarà la guerra a insegnare a Mike che non esiste un modo “corretto” di sopprimere un altro essere vivente. Né per chi combatte (o crede di combattere) una guerra “giusta”, né per chi uccide un animale. Dal punto di vista di chi è strappato alla vita, uomo o animale che sia, il “come” non fa differenza. Mike lo capisce, e non riuscirà più a sparare, nemmeno a un cervo, nemmeno con l’alibi di “un colpo solo”.

All’epoca, Cimino fu accusato di patriottismo reazionario per avere indicato una possibile via d’uscita dal labirinto di una sofferenza devastante. Perché, in effetti, la sua non è la contemplazione dell’apocalisse coppoliana, in bilico tra orrore e fascinazione. Non è la visione sardonica e quasi compiaciuta di Kubrick. Non contiene l’esortazione naive alla bontà che chiude il film di Oliver Stone, né la denuncia dei carnefici da parte di De Palma. La via d’uscita di Cimino in realtà consiste nel rientro: quello dei sopravvissuti a Clairton, Pennsylvania, per riannodare i fili delle rispettive esistenze dentro la comunità da cui provengono. God Bless America, cantano Mike e gli altri. Ma non perché Clairton sia l’America dell’American Dream (anzi: i protagonisti sono di origini russe), ma perché è ancora casa. È ancora home, my sweet home, l’unico possibile rifugio dagli orrori del mondo. È una risposta a una duplice perdita, quella degli affetti e quella dell'innocenza, che possiamo anche non condividere. Ma non possiamo ignorare che ognuno di noi è chiamato a trovare la propria.

"A Nick!"

 

venerdì 1 dicembre 2023

NAPOLEONE

No, il problema non è la mancanza della lezione di Storia. Anche se, affrontando un periodo storico non proprio remoto e ben documentato, qualche scrupolo di verosimiglianza e di contestualizzazione sarebbe meglio conservarlo. Comunque, potremmo anche dimenticarci che a Napoleone si deve il codice napoleonico (tuttora la base del diritto francese); che non bombardò le piramidi, ma fondò con un folto gruppo di accademici l’Institute d’Egypte; e che gli studi dell’Institute culminarono con la pubblicazione de La description de l’Egypte, all’epoca il testo più vasto mai pubblicato, opera ancora oggi fondamentale per l’egittologia. Potremmo anche dimenticarci che Napoleone era più giovane di Giuseppina; che non era il nanerottolo rappresentato nei libelli satirici, ma era alto un metro e sessantanove, perfettamente nella media dell’epoca. E che il Duca di Wellington – che non incontrò mai di persona – lo superava di soli cinque centimetri.

Insomma, potremmo dimenticarcele tutte, le falle storiche; potremmo, se non fossero colmate da Ridley Scott e dal suo sceneggiatore David Scarpa con materiale tutt’altro che avvincente. O, al limite, avvincente quanto poteva esserlo un libello satirico dell’epoca, realizzato al solo scopo di denigrare l’avversario. 

Perché il filmone di Scott in sostanza è questo: quasi tre ore di puro revanchismo made in UK, che riduce Napoleone a un omuncolo (fisicamente e metaforicamente), sbruffone, disempatico, narcolettico e imbranato con le donne, vincitore in battaglia non perché intelligente e competente, ma solo perché dotato del “fattore C”. Insomma, una figura simile al generale Custer imbecille e fanfarone rappresentato da Arthur Penn nel Piccolo Grande Uomo più che al condottiero che fece tremare i grandi imperi d’Europa.

Ma anche una lettura smitizzante, perfino dissacrante, risulterebbe efficace dentro una struttura narrativa compatta. Purtroppo non è questo il caso. Il film sembra non avere una visione narrativa d’insieme: il racconto procede in maniera ondivaga, per blocchi. A imponenti scene di massa – ancorché orchestrate in maniera iperrealistica e con indubbio gusto per l’affresco visivo – si alternano siparietti grotteschi, senza risparmiarci un Napoleone che si accoppia con Giuseppina come un coniglio, andando in meta dopo pochi secondi.  

Ma i problemi non consistono solo negli stridenti cambi di registro. Il primo problema è l’età di Joaquin Phoenix. Che, alla soglia dei cinquant’anni, rende perfettamente il declino dell’imperatore nella parte finale del film. Ma non può logicamente avere né il fisico né lo sprint del Napoleone ventiquattrenne che annientò gli inglesi nel porto di Tolone. Non è un handicap da poco, perché Napoleone si fece strada in pochi anni grazie al carisma della sua energia. E di questa non c’è traccia nella prima parte del film, in cui Phoenix deambula placido e sonnacchioso, tanto in battaglia quanto nelle stanze del potere.

Nessuna scena, poi, illustra il legame tra il generale e i suoi soldati. Tanto che alla fine, al momento del suo rientro in Francia dall’Elba, l’accoglienza entusiasta delle truppe risulta narrativamente incongrua. (E il paragone con Maximus che passa in rassegna la legione schierata nel Gladiatore è semplicemente impietoso).

La scelta drastica di Scott e Scarpa – amplificare all’estremo la solitudine di Napoleone, fare apparire il condottiero corso come un parvenu, un corpo estraneo all’apparato di potere francese – penalizza tutti i personaggi di contorno. A nessuno è concessa una battuta rivelatrice, uno spessore che vada al di là di una caratterizzazione “di servizio” semplicemente funzionale alla comprensione della trama. 

In pratica, è Vanessa Kirby nel ruolo di Giuseppina a reggere con Phoenix il peso del film. Una bella prova d’attrice, la sua, che riesce a dare consistenza a dialoghi che scivolano a tratti nel farsesco. Grazie, forse, anche una ritrovata voglia, da parte di Scott, di lavorare con le attrici dopo l’indimenticabile Thelma e Louise e il dimenticabile Soldato Jane. Ma per un film di questa portata è davvero poco da contrapporre alle lunghe scene di morte e distruzione. 

 

Non vorrei comunque dare l’impressione che Napoleone sia un film da liquidare con una scrollata di spalle. A ottantacinque anni suonati, Scott riesce a gestire set giganteschi con sicurezza e grande senso dello spettacolo. A tratti trova nel magma visivo qualche bella intuizione narrativa (Napoleone che fissa il volto della mummia è quasi un presagio sulla fine di ogni gloria terrena), e infine approda a un bell’epilogo coi tempi giusti, che ricorda la conclusione della saga del Padrino: l’unica occasione in cui, dopo due ore e quaranta, il regista regala allo spettatore un momento di empatia col condottiero francese.