domenica 14 giugno 2015

INCONTRO CON QUINO (marzo 2007)

Confesso che in gioventù non immaginavo che un giorno avrei scritto storie realistiche d'avventura. Scrivevo e disegnavo (maldestramente) strip umoristiche, e la mia strip preferita in assoluto era Mafalda. Nel marzo 2007 Quino è venuto a Milano per presentare l'ennesima ristampa della bambina terribile. Al momento degli autografi gli ho detto che quello era il secondo autografo che gli chiedevo. Perché il primo me lo aveva fatto a Lucca, nel 1984, quando ero poco più che ventenne e fare i fumetti era soltanto un sogno. Quindi gli ho regalato un albo di Legs. Mi piace pensare a Legs come a una specie di Mafalda cresciuta, insofferente alle storture del mondo. 


Scegliere fra Mafalda e i Peanuts è un po’ come scegliere tra Beatles e Rolling Stones, comunque io sono con Mafalda (il cui autore preferisce i Beatles, ma è difficile pensare a Charlie Brown come a Mick Jagger). Perciò non potevo mancare all’appuntamento con Quino, il 7 marzo alla libreria Feltrinelli di piazza Piemonte.

Paradossalmente, Quino non è in tour promozionale, anzi: è in anno sabbatico (“per ora sono tre mesi sabbatici”, precisa lui). Non ha volumi da “spingere” (e d’altronde, uno come lui non è che ne abbia un gran bisogno di signing-tour e uscite promozionali). Però, dal momento che acchiapparlo è difficile (non vive stabilmente in un solo posto, ma si muove continuamente fra l’Argentina e l’Europa), la Feltrinelli lo ha amabilmente “incastrato” per incontrare il pubblico italiano.

Quino è un genio, su questo non si discute, uno dei pochi geni ancora in attività. Cinquant’anni e oltre di carriera. E la prima cosa che noti è che Quino è la prova vivente che il genio non si abbina necessariamente alla sregolatezza. Il signor Joaquin Lavado è un gentleman di settantaquattro anni, vestito in completo scuro con tanto di cravatta. Parla un italiano più che discreto, e si confessa con un sano pragmatismo venato da lampi di ironia.

Racconta che la sua “argentinità” è molto relativa, dato che la sua casa in Argentina è in una provincia ai confini col Cile. “Non mangio carne tutti i giorni e non ballo il tango”, spiega divertito. “La gente che ho intorno è di origine italiana, spagnola, e da queste parti ci sono perfino degli islamici. Perciò mi sento mediterraneo.”

A condurre l’incontro è Ranieri Polese, che pone senza tanti preamboli la domanda fatidica. “Quino sente il suo lavoro “oscurato” dall’ombra di Mafalda?” Quino come Connery con James Bond? Nemmeno per idea. L’autore nega decisamente. “Mi farebbe piacere che il resto del mio lavoro fosse più conosciuto, ma non sono affatto scontento che Mafalda sia il mio lavoro più conosciuto.”
Pragmatico. E come non esserlo? D’altronde, è stata la bambina terribile partorita “su commissione” (doveva fare da testimonial a una marca di elettrodomestici) a rendere il suo autore conosciuto (e amato) in tutto il mondo. E, diciamo la verità, è Mafalda ad avere attirato in libreria questa sera un pubblico variegato. C’è la signora di quarantacinque-cinquant’anni che ricorda Mafalda come fumetto femminista. Ci sono genitori trentacinquenni con bambini al seguito. C’è perfino qualche giovanissimo “alternativo” con lo zainetto Invicta tatuato col simbolo di Emergency e c’è il nerd brufoloso e grassoccio, perché Mafalda non è sexy come Elektra, ma la sua lingua è più affilata di una katana. (“Ciao, bella bambina. Vuoi bene ai tuoi genitori?” “Certo. E lei le paga le tasse?”).



Mafalda è trasversale come quella famosa crema alla nocciola che ha allietato le nostre merende di bambini. Piace a tutti. E piace sempre, nonostante il passare del tempo.

Quino smise di disegnarla nell’ormai lontano 1973 “perché gli anni sessanta erano finiti”, e Mafalda, per lui, era parte di quel decennio irripetibile: come i Beatles, come Che Guevara, come papa Giovanni XXIII. La cosa buffa è che Mafalda è diventata famosa forse non proprio come quelle icone, ma è invecchiata un po’ meglio, riuscendo a non restare incasellata nella scomoda posizione di “reperto d’epoca”, da rievocare nostalgicamente. Mafalda è sempre attuale. Un po’ per oculatezza professionale dell’autore (“non amo la satira politica, perché non voglio che chi legge una mia vignetta a distanza di tempo si chieda chi era il primo ministro all’epoca”); e un po’ per quei meravigliosi scherzi del destino, che consegnano un personaggio nato in una contingenza precisa all’immortalità. Apri a caso uno dei tanti volumi con le strips della bambina terribile – Salani Editore le sta ristampando in edizione economica – e Mafalda ci parla ancora con la stessa freschezza di ieri, sempre sincera, sempre pungente, sempre attuale.

“Conflitto arabo-israeliano… Tom & Jerry.”
“So che non devo chiederTi cose materiali, ma Ti prego di migliorare lo stato della situazione… o la situazione dello Stato?”
“Capisco che ognuno, per quel poco che faccia, il suo granello di sabbia lo mette. Quello che non capisco è perché mai deve andare a ficcarlo proprio nell’occhio del prossimo.”
“La società moderna… o la zoocietà moderna? La sudicità moderna?”

Quino gira provocatoriamente la domanda al pubblico: “Perché Mafalda è sempre attuale?”. Gli viene risposto che Mafalda è attuale perché il mondo, in fin dei conti, non è cambiato. C’è sempre una guerra da qualche parte. C’è sempre una crisi economica nel nostro Paese (qualunque esso sia). E tutti vogliamo dai nostri genitori (o da chi ne fa le veci: lo Stato, la Società, la Scuola) risposte sincere, mentre ci vengono fornite bugie più o meno benintenzionate.

Sono tutte osservazioni giuste, ma con un denominatore comune: mi sembrano tutte incentrate sui contenuti, cioè sul personaggio. Come se Mafalda vivesse di vita propria, fosse una bambina in carne e ossa che si è fatta strada nel mondo, e non una serie di disegni su carta. Voglio dire, mi sembra che siano attribuiti al personaggio meriti che sono dell’autore. E che vengono sbrigativamente liquidati nell’appiccicare su Quino l’etichetta – d’altronde meritatissima – di genio.

Invece un piccolo indizio per risolvere il mistero Quino lo dà durante la conferenza quando a un certo punto parla di pittura e di cinema. “Bottero è bravo, ma disegna solo donne grasse. Se devo esprimere una preferenza, dico che preferisco Picasso, che non si è mai fermato.”
E quando poi Quino parla del suo tempo libero e dice che gli piace il cinema, quello visto in sala, fa un cenno a Clint Eastwood, di cui ha appena visto Letters from Iwo Jima. “Le cose migliori Eastwood le ha fatte quando è maturato, con il passare del tempo.”
Eccolo, l’indizio per svelare il mistero di Mafalda: Quino non si è fermato nemmeno quando si è fermato (cioè quando ha smesso di disegnare Mafalda). Vediamo di spiegarci. Il maestro argentino non si è mai adagiato né su un segno né su un certo tipo di trovate. Non è mai diventato un manierista di se stesso. Beatles, non Rolling Stones, ricordate?

Con Mafalda, Quino ha affrontato una struttura – quella della strip – rigida, ardua, estenuante. Ma l’autore ne ha sfruttato fino in fondo – come e forse anche più di Schultz – tutte le possibilità, e basta sfogliare appena tre o quattro tavole di Mafalda per rendersene conto.

Prima di tutto c’è il segno, l’intuizione del segno e il lavoro sul segno. Il paragone con Schulz è illuminante: Schulz sceglie un segno bidimensionale, grafico, che gli consente di aprire a un mondo surreale dove gli adulti non sono mai visualizzati e dove i bracchetti interloquiscono con gli uccelli e coltivano aspirazioni letterarie. Quino invece adotta un segno pur sempre rotondeggiante – e quindi gradevole, come si conviene a una strip umoristica, ma “pieno”, tridimensionale, adatto a rappresentare un mondo di bambini e di adulti verosimili, una tipologia umana perfettamente riconoscibile. Nel mondo di Mafalda gli animali non parlano. Al limite un gatto può starnutire, e Mafalda gli dice “Salute!”, per poi aggiungere: “Se mi avesse risposto avrei passato il resto della mia vita in psicoterapia”.

La struttura “a gag” della strip umoristica trova particolarmente congeniale la sequenza “a camera fissa”, come se la strip fosse una sorta di teatrino. E Quino la usa, certamente. Ma non sempre. A volte la interpreta inquadrando leggermente dall’alto. Spesso la spezza con un montaggio cinematografico, avvicinandosi ai personaggi come se stesse zoomando, o a volte allontanandosene bruscamente, anche con campi lunghi dall’alto quasi perpendicolari: soluzioni “di regia” più tipiche del fumetto realistico-avventuroso.

E poi c’è il ritmo. Difficilmente Quino porge la battuta in maniera secca, in due-tre vignette. La media è di quattro vignette per striscia, ma ci sono anche strisce che contano sei vignette (il record è di sette in una striscia con Manolito). Quino dilata la gag come se fosse un invisibile elastico, per poi lasciarla andare nell’ultima vignetta (a volte muta, usata come contrappunto ironico offerto da uno sguardo o da un gesto). A volte si permette addirittura stacchi spazio-temporali audaci da una vignetta all’altra (passando dalla notte al giorno, da interno a esterno, da mondo della fantasia a mondo della realtà).

C’è un lavoro sulla strip, insomma, tutt’altro che improvvisato (e lo stesso Quino ha ammesso di non essere un disegnatore veloce). C’è una riflessione sulla struttura che diventa quasi ontologica, tesa a esplorarne a trecentosessanta gradi tutte le possibilità espressive; una ricerca che diventa quasi virtuosistica, ma senza mai rinunciare alla leggibilità e all’immediatezza. Un miracolo di equilibrio.
E poi, naturalmente, dietro l’artista c’è l’uomo, dietro Mafalda c’è il pensiero che Joaquin Lavado affida alle matite di Quino. Il pensiero di uno che si definisce “non pessimista, ma realista.”. In realtà dietro la rappresentazione – puntuale, ma mai compiaciuta – di un mondo che non va come dovrebbe andare si intravede una tensione dialettica fra rassegnazione (“in fin dei conti l’umanità non è che un sandwich di carne tra terra e cielo”) e rabbia (“Smettetela di litigare, ché la famiglia è AMORE, capito? E’ AMORE!”).

Quino racconta che dopo i primi cartoni animati di Mafalda gli appassionati della strip protestarono perché la voce di Mafalda “non era quella là”. Naturalmente, nessuno riusciva a spiegare quale fosse la “vera” voce di Mafalda. Ma su una cosa tutti erano concordi: non era quella del cartone.

Anche se questo è un fenomeno comune ogni volta che a un personaggio di carta viene “prestata” una voce umana, si presta a una lettura metaforica che spiega molte cose. Non può essere quella la voce di Mafalda, perché ognuno di noi sente la propria voce quando la bambina terribile parla. Per fortuna, possiamo aggiungere. Perché davanti alle storture del mondo noi spesso tacciamo – per pigrizia, convenienza, vigliaccheria, o per effettiva impotenza –, mentre Mafalda non tacerà mai.

Quino è troppo gentleman o forse semplicemente troppo smaliziato per avventurarsi in discorsi vischiosi sul fumetto come Nona Arte, anche se durante l’incontro Polese gli porge la palla citando la frase di Garcia Marquez: “Il miglior rimedio contro l’infelicità è la Quinoterapia.”. Non è un semplice complimento, questo. Non lo sarebbe per nessuno. In buona sostanza, questo è il riconoscimento dello status di Artista da parte di un premio Nobel.

John Lennon avrebbe detto che Mafalda è “più famosa di Gesù Cristo”, e avrebbe invitato le signore presenti a far tintinnare i gioielli in segno di acclamazione. Quino la butta sull’understatement : “È solo una frase molto gentile.”.

Si accomoda al tavolino e si sottopone pazientemente al rito degli autografi.