martedì 9 giugno 2015

L'OPINIONE DEGLI ALTRI (maggio 2004)

Per me Jerome K. Jerome era quello di Tre uomini in barca. Frugando tra i libri di mio nonno, molti anni fa, trovai un suo romanzo che non conoscevo. Il libro era un'edizione del 1927 della Sonzogno, il titolo era Storia di un romanzo (poi ripubblicato, scoprii, col titolo di Appunti per un romanzo.). Da qualsiasi parte guardiate ai libri, che siate scrittori o lettori/critici, credo che queste pagine meritino qualche riflessione.


<< Quando ero molto giovane, morivo dalla voglia di conoscere l'opinione degli altri su di me e sui miei lavori. Ora, invece, il mio obiettivo principale è quello di riuscire a ignorarla.

All'epoca, se qualcuno mi avesse detto che c'era una mezza riga su di me in un giornale, avrei fatto tutta Londra a piedi per avere quella pubblicazione. Ora, quando vedo un pezzo col mio nome nel titolo, mi affretto a piegare il giornale e a metterlo via, vincendo la naturale curiosità che mi spingerebbe a leggerlo con questa considerazione fatta tra me e me: - Perché dovrei leggerlo? Mi guasterei il sangue per tutta la giornata. -

Quando ero ragazzo avevo un amico. (…) Anche lui aveva quell’ardente desiderio di essere criticato che hanno tutti i giovani, e per noi, abitualmente, questo era fonte di reciproca gratitudine.
Non sapevamo allora che ciò che intendevamo con la parola "critica" era invece incoraggiamento. Credevamo di essere molto forti - come coloro che sono alle prime armi - e che avremmo potuto sopportare di sentirci dire la verità.

Come avevamo stabilito, ci indicavamo a vicenda i nostri errori, e questo compito ci occupava tanto che non ci avanzava mai il tempo per farci una lode.

Sono convinto che ciascuno di noi due aveva una grande opinione dell'ingegno dell'altro, ma le nostre teste erano piene di stupidi proverbi. Ci dicevamo: "A lodare sono buoni tutti. Solo un amico ti dirà i tuoi difetti."  Dicevamo anche: "Nessuno vede le proprie mancanze. Ma quando queste gli vengono indicate da un altro, gliene sia grato, e cerchi di rimediare."

Quando poi conoscemmo meglio il mondo, apprendemmo la falsità di queste idee. Ma allora era troppo tardi, e l'errore era già stato commesso.

Quando uno dei due scriveva qualche cosa, la leggeva all'altro, e quando aveva finito diceva: "Adesso dimmi un po' cosa ti sembra... sinceramente, da vero amico."

Queste erano le parole. Ma l'intimo pensiero, pur senza averne precisa coscienza, era: "Dimmi che è bello e che è buono, amico mio, anche se non lo pensi. Il mondo è molto crudele verso coloro che non lo hanno ancora conquistato, e benché i nostri volti sembrino sereni, i nostri cuori sono già pieni di rughe. Spesso ci sentiamo stanchi e sfiduciati. Non è vero, amico mio? Nessuno ha fiducia in noi, e nei momenti di sconforto dubitiamo di noi stessi. Tu sei il mio amico più caro. Tu sai quanto di me stesso ho riversato in quello che ho scritto, che per gli altri non sarà che mezz'ora di lettura noiosa. Dimmi che è bello, amico mio. Rincuorami un po', ti supplico."

Ma l'altro, riempito dalla smania della critica, che altro non è se non un surrogato civile della crudeltà, rispondeva più da uomo sincero che da amico. Allora colui che aveva scritto si offendeva, e ci scambiavamo parole sprezzanti.

Una sera mi lesse una commedia che aveva scritto. Aveva del buono, ma aveva anche dei difetti (come qualunque commedia). Mi appigliai a questi difetti per demolirgliela. Se fossi stato un critico di professione, difficilmente sarei riuscito a maltrattare quel lavoro con maggiore, ingiustificata acredine.

Appena ebbi finito di prendermi gioco del suo lavoro, egli si alzò, riprese il manoscritto dal tavolo, lo fece a pezzi e lo buttò sul fuoco - il mio amico era giovanissimo, tenetelo presente - e poi, dritto davanti a me, pallidissimo, senza che lo sollecitassi, mi disse quello che pensava di me e della mia arte.
Dopo quel doppio incidente, è forse inutile dirvi che ci lasciammo furibondi.

Non lo rividi più per molti anni. (…) Lo ritrovai per un puro caso.

Me ne venivo dai Whitehall Rooms, di ritorno da una cena; e, felice di poter respirare l’aria fresca della notte, tornavo a casa a piedi lungo l’Embankment. Un uomo che camminava curvo sotto gli alberi si fermò mentre io stavo per sorpassarlo.
- Mi scusi, signore, mi darebbe da accendere? – mi chiese.
La voce mi sembrò strana, dato l’aspetto di chi aveva parlato.

Accesi un fiammifero e glielo porsi riparando la fiammella con le mani. Quando quella debole luce illuminò il suo viso, balzai indietro lasciando cadere il fiammifero: - Harry! –

Mi rispose con un risolino secco.
- Mai avrei immaginato che eri tu, altrimenti non ti avrei fermato. –
- Come mai ti sei ridotto così, vecchio mio? – gli chiesi, posandogli una mano sulla spalla.
Aveva una giacca così disgustosamente lurida che ritirai in fretta la mano per pulirmela di nascosto col fazzoletto.
- Beh, è una storia molto lunga – mi rispose con indifferenza – e troppo comune perché valga la pena di raccontarla. C’è chi sale, lo sai meglio di me. E c’è chi scende, invece. Sembra che a te vada benone, a quanto ho sentito. –
- Sì, non c’è male – risposi – Sono riuscito ad arrampicarmi per qualche metro su un palo insaponato, e adesso cerco di restare dove sono. Ma dimmi di te, invece. Posso fare qualcosa per te? –
In quel momento passavamo sotto un lampione. Avvicinò il suo viso al mio e la luce lo colpì in pieno, illuminandolo spietatamente.
- Ho l’aspetto di uno per cui puoi fare qualcosa? - mi chiese.
Procedemmo in silenzio l’uno accanto all’altro, mentre io cercavo disperatamente le parole più adatte alla circostanza.

- Non ti dare pena per me – aggiunse poco dopo – Io me la passo abbastanza bene. Quando hai toccato il fondo come me si prende la vita come viene, senza rischiare disillusioni. –
- Perché ti lasci colare a picco come un rottame? – sbottai leggermente sdegnato. – Eri dotato, e con un po’ di costanza saresti riuscito ad arrivare. –
- Può darsi – rispose lui con la stessa indifferenza di prima. – Credo che mi sia mancato il coraggio. Sono convinto che se qualcuno avesse creduto in me avrei avuto la forza di reggere. Ma nessuno ha creduto in me, e così ho perso anch’io la fiducia in me stesso. E quando un uomo perde la fiducia in se stesso è come un pallone che si sgonfia. –

Ascoltai queste parole indignato e attonito. – Nessuno ha avuto fiducia in te? Ma io ho sempre avuto fiducia in te! Io… -
A questo punto mi interruppi, perché ricordai la nostra reciproca e “innocente” critica.
- Hai avuto fiducia in me? – replicò lui, tranquillo – Non me lo hai mai detto. Buonanotte. –

Così, camminando, eravamo giunti nelle vicinanze del Savoy e, come ebbe detto questo, scomparve in uno dei vicoli oscuri di quella zona. Affrettai il passo dietro di lui, chiamandolo per nome, ma, benché udissi i suoi passi svelti davanti a me per un certo tratto, finirono col confondersi tra gli altri.

(…)

Mentre ritornavo, mi chiedevo – e me lo ero chiesto prima e me lo chiesi sempre da allora in poi – se l’Arte, anche con la A maiuscola, meriti proprio tutte le sofferenze che le vengono inflitte nel suo interesse: e se essa stessa e noialtri miglioriamo veramente per lo scherno, le beffe, le invidie e gli atti di odio che si commettono in suo nome.>>

Jerome K. Jerome, da Storia di un romanzo (Sonzogno, 1927)