venerdì 11 settembre 2015

L'ULTIMA CASA A SINISTRA

Per ricordare Wes Craven, scomparso qualche giorno fa, ripropongo questo articolo scritto nel 2002 per il vecchio sito.


Mari sta per compiere diciassette anni, e intende festeggiare in anticipo andando a un concerto con l’amica Phyllis. Saluta i genitori ed esce. Non tornerà mai più: poche ore dopo, Mari e Phyllis, in cerca di un po’ di marijuana, capitano nella tana del lupo. Il ragazzo che le ha invitate a entrare a casa sua è Junior Stillo, figlio dello psicopatico Krug Stillo, appena evaso e a caccia di prede con i suoi complici Weasel e Sadie. Krug e i suoi rapiscono le ragazze, le portano in un bosco, le seviziano orribilmente e e infine le uccidono. Poi, bloccati dalla macchina in panne, bussano in cerca d’aiuto alla porta della casa più vicina. Che, per un bizzarro scherzo del destino, è la casa dei genitori di Mari…


La trama di L’ultima casa a sinistra (The Last House on the Left), diretto nel 1972 da Wes Craven (il futuro regista del ben più celebre Nightmare), è più o meno tutta qui.

Ho visto diversi film – per lo più film spazzatura – con una trama di questo tipo. Ma non avevo mai visto l’originale, il capostipite di quel filone del thriller denominato rape and revenge (stupro e vendetta). Confesso che non sono un appassionato del genere (figuriamoci, sono cresciuto con i fumetti di Capitan Miki e Blek Macigno), ma L’ultima casa a sinistra fa eccezione rispetto al cinema di cui sopra. Non arrivo a dire che mi ha entusiasmato. Diciamo che l’ho trovato interessante. Ma ammetto di avere qualche difficoltà a spiegare come e perché. 
A una prima occhiata, l’opera prima di Wes Craven è un filmaccio. E in effetti, narrano le cronache, nasce come tale. Nel senso che fu concepito a sangue freddo dal regista e dal produttore Sean Cunningham (futuro padre della saga di Venerdì 13) come pura sexploitation: cioè come pellicola a base di scene shock di sesso e di violenza, col promettente titolo di Night of Vengeance (Notte di vendetta). Ma poi, strada facendo, cambiò titolo e connotati.

Sarà che l’ispirazione di fondo era nobile. La fontana della vergine di Bergman, nientemeno. E, in più, c’era l’idea di rappresentare “realisticamente” la violenza. Trent’anni dopo il film, Craven e Cunningham ricordavano ancora le loro discussioni sulla violenza cartoonistica dei film di Sergio Leone: “Volevamo fare un film dove la morte fosse effettivamente percepita dallo spettatore come morte.”
E, va da sé, la violenza fosse percepita come violenza. Violenza che, nota acutamente il critico David Flint, è “lenta, prolungata, dolorosa e degradante… e non solo per le vittime”.

L’effetto finale è quello di un realismo forse mai più raggiunto in un thriller, doloroso e quasi insostenibile.
Su cosa sia “realistico” in un film si può dibattere da qui al giorno del giudizio. Ma, una volta tanto, la frase di lancio del film (concepita da Cunningham) non appare esagerata: “Per non svenire continuate a ripetervi: è solo un film, è solo un film, è solo un film…”
E anche se, appunto, è “solo” un film, L’ultima casa a sinistra risulta ai più quasi insopportabile. Altri lo guardano serrando le mascelle, ma incapaci di distogliere lo sguardo.


Che cosa turbava – e tuttora turba – in un film del genere? A livello epidermico, si può imputare il disagio alle scene di tortura. Che sono sì visivamente esplicite, ma non troppo; almeno rispetto a quanto avrebbe mostrato, negli anni a seguire, il cinema gore (in particolare quello italiano).

Forse il maggior disagio è dovuto al distacco emotivo del regista dai suoi personaggi. E non parlo dei cattivi. I genitori di Mari sono dapprima rappresentati come genitori qualsiasi, in un quadretto che più ordinario non si può. Ma nello spazio di poche ore quel padre e quella madre - assai perbene, un po’ noiosi, quasi irritanti nel loro modo di viziare la figlia - si trasformano in giustizieri a sangue freddo, capaci di atrocità tali da rivaleggiare in sadismo con quelle commesse dagli assassini.

Lo spettatore si trova spiazzato, senza personaggi in cui identificarsi. E ugualmente spiazzante è la recitazione. Che non è, come sarebbe lecito aspettarsi, amatoriale o sciatta, o tantomeno sopra le righe e ammiccante, come spesso succede nell’horror. Al contrario, è insolitamente efficace, considerato che Last House è realizzato da giovanissimi con scarsa o nessuna esperienza di set. Il realismo delle rispettive performance rende bizzarramente credibile il perverso legame “familiare” tra Krug (un magnetico David Hess) e i suoi compagni di merende. E il bravo Marc Sheffler, nella parte di Junior, dà vita a una patetica figura di tossicomane che attira la commiserazione più che lo sdegno dello spettatore.

Se i carnefici sono credibili, le vittime non sono da meno. Sandra Cassel recita benissimo il ruolo della vittima sacrificale (a detta dei colleghi, l’attrice era realmente spaventata), ma Lucy Grantham nel ruolo della reattiva Phyllis è semplicemente eccezionale. La battuta “Siamo sole… non c’è nessun altro, qui”, che prelude all’umiliazione più abietta, è una sua invenzione. Ed è un momento da groppo in gola, in cui lo spettatore (maschio) è in bilico su una corda sottile tesa tra il voyeurismo e la nausea.


In ogni modo, Craven si ferma sempre un passo prima del titillamento pornografico. La regia non è mai enfatica, ma in qualche modo trattenuta, quasi documentaristica. Sono privilegiati i campi medi, con una costruzione delle inquadrature a tratti quasi geometrica, fredda.

Non siamo di fronte a un film di Stanley Kubrick, sia chiaro, e nemmeno a un modello di compattezza stilistica. Qualcuno trova sconcertante, più che l’assunto del film, il brusco cambio di registro stilistico, quando il regista stacca dalle scene di atrocità alle grottesche peripezie dei poliziotti in cerca di un passaggio (maltrattati prima da un gruppo di hippies, poi da una vecchietta).

Ma l’abilità maggiore di Craven consiste forse nel giocare (al massacro) con le aspettative di noi poveri spettatori. Per il primo terzo del film palpitiamo per la sorte delle due ragazze. Vogliamo che scappino. Perché è questo che ci aspettiamo. E' “solo” un film. Ma a metà film le due hanno subìto atrocità tali che, lo capiamo benissimo, per loro sopravvivere sarebbe una tortura in più, e non una salvezza. A questo punto, anche vederle salve non ci appagherebbe granchè. A due terzi del film, dopo la loro morte, dovremmo aspettarci la punizione degli assassini. Ma, appunto, il male commesso è stato così grande che sembra non esserci punizione abbastanza adeguata da darci una qualche consolazione. E comunque, il massacro continua…

In Italia, la critica ufficiale non è mai stata propriamente entusiasta dell’Ultima casa a sinistra. Paolo Mereghetti trova il successo di pubblico “sorprendente” e definisce il film sì interessante, ma solo “come testimonianza sociologica del malessere sociale che serpeggiava nell’America di quegli anni”.
Sarà. Ma a trent'anni esatti dalla sua realizzazione, L’ultima casa a sinistra non ha perso mordente. Ha un vasto seguito tra gli appassionati di thriller e horror. Ha avuto difensori di nome, come il critico Roger Ebert. E, soprattutto, ha nemici accaniti come i censori inglesi, che con rara ostinazione hanno impedito – e impediscono tuttora - che il film circoli in Inghilterra senza tagli.

Non so quante “testimonianze sociologiche” abbiano ancora tanta forza a distanza di trent’anni dalla loro uscita. Pensate, per esempio, a quanto poco poteva risultare “shoccante” un film come Il Selvaggio (1954, proibito in Inghilterra fino al 1968) per le platee degli anni ottanta, che sgranocchiavano pop-corn applaudendo agli sbudellamenti di film come Re-Animator o Splatters-Gli Schizzacervelli.
Paradossalmente, in questi tempi anestetizzati dall’ipocrisia del politicamente corretto, L’ultima casa a sinistra spicca per il suo disperato statement di fondo sulla irrimediabilità del Male. Che non è spazzato via sullo schermo da un epilogo appagante, né purgato dalla catarsi dello spettatore. Il fermo di fotogramma finale congela ogni aspettativa di una pur minima consolazione: carnefici, vittime e giustizieri sono ugualmente annientati. E con loro il pubblico.

Ci sarà pure una ragione se la pellicola di Wes Craven non è caduta nell’oblio, a differenza di tanti altri film dello stesso tipo. Forse è stata l’intuizione tipica dei creativi di talento, il proverbiale “fiuto”, forse si è trattato solo della fortuna dei dilettanti o semplicemente di una congiuntura favorevole, qualcosa che “era nell’aria”. Il cinema è fatto anche di questo, e L’ultima casa a sinistra – datato o attuale, dilettantesco o pretenzioso, arte o pattume che sia - rimane uno di quei film in qualche modo “da vedere”. A stomaco vuoto, magari.


I PROTAGONISTI



David A. Hess è rimasto inchiodato per anni al ruolo che lo ha reso celebre, quello del sanguinario capobanda Krug Stillo. Lo ha ripetuto con minime variazioni anche in due thriller italiani: Autostop Rosso Sangue, di Pasquale Festa Campanile, e La casa in fondo al parco, di Ruggero Deodato. Ha poi lavorato in produzioni europee, nessuna delle quali memorabile. In compenso ha avuto una fortunata carriera come musicista. Ha inciso diversi album (oltre alla colonna sonora dell’Ultima casa a sinistra) e scritto canzoni interpretate anche da altri artisti (compreso Elvis Presley). È stato l’unico degli attori a essere convinto della bontà del film di Craven, e più che disponibile a parlarne pubblicamente, fino alla sua scomparsa, nel 2011.


Fred Lincoln (“Donnola” nel film) è rimasto anche lui nel mondo del cinema, ma si è specializzato nel porno, passando successivamente alla regia. Per qualche tempo è stato anche proprietario di un club per coppie scambiste. Dichiarò che L’ultima casa a sinistra era l'unico film di cui si vergognava.


Marc Sheffler, alias Junior Stillo, è passato dalla recitazione alla scrittura, ed è diventato un apprezzato sceneggiatore di sit-com.


Jeramie Rain (Sadie), dopo Last House, ha recitato per qualche tempo nella soap The Doctors. E’ stata sposata per anni con l’attore Richard Dreyfuss. Con lui ha avuto tre figli che, ebbe a dire una volta, le rimproveravano di avere preso parte al “peggior film di tutti i tempi”: L'ultima casa a sinistra, appunto. Lavora come produttrice e autrice televisiva.

Sandra Cassel (all'anagrafe Sandra Peabody), la sfortunata Mari, ha lasciato la recitazione negli anni settanta, dopo una manciata di film. Lavora come insegnante di recitazione e autrice di programmi per bambini nell'Oregon.


Lucy Grantham, la grintosa Phyllis, ha cominciato e finito la sua carriera di attrice con Last House. L'Internet Movie Data Base testimonia solo un'altra sua apparizione, in un bizzarro docudrama sul mondo del porno, Loops, a cui partecipò anche Fred Lincoln.