martedì 14 luglio 2015

L'ULTIMA STORIA DI ATTILIO MICHELUZZI (2002)

La Sergio Bonelli Editore ha appena pubblicato l' Avventura Magazine dedicato ad Attilio Micheluzzi. Ve lo consiglio caldamente. Anche se il formato sacrifica un po' le tavole dell'autore istriano, pensate per un formato più grande, è l'occasione buona per conoscere - o per ritrovare, se già lo conoscete - uno dei maestri del fumetto italiano.

Nel 2002 recuperai  in libreria una sua storia che non ricordavo di avere letto. E infatti non l'avevo mai letta: era l'ultima, di cui Micheluzzi non aveva fatto in tempo a completare le chine, stroncato da un infarto nel 1990. Si intitolava Afghanistan, e ne scrissi una breve recensione che misi on line. 

Quel volume, edito dalla Lizard, oggi è quasi introvabile. 


Afghanistan, 1987. Sono passati otto anni dall'invasione russa. Kabul è un calderone che ribolle per la presenza di più di un milione di profughi in fuga dalle campagne. L'Unione Sovietica non riesce a prendere il controllo definitivo del territorio, e continua a inviare truppe di "Spetsnazi". Sono così detti i componenti delle Spetsialnoye Naznachenie, le unità per le missioni speciali: i combattenti più duri dell'Armata Rossa.

Vasilj Bodovskov è uno di questi: un soldato superaddestrato e motivato, che non si sognerebbe mai di discutere un ordine. Said Vassar invece è un ragazzo afghano che ha visto il suo villaggio distrutto dall'aviazione sovietica. Finito in un campo profughi a Peshawar, in Pakistan, viene per caso a conoscenza del complotto di una tribù rivale per uccidere il leader Babrak Massoud. E, come premio, ottiene di ritornare in Afghanistan per combattere nella guerriglia. Fatalmente, le strade del ragazzo e del soldato sovietico sono destinate a incrociarsi...

venerdì 10 luglio 2015

UN SETTIMANALE IRRIPETIBILE (2003)

Ripropongo qui uno dei vecchi articoli a cui tengo di più, quello sul Corriere dei Ragazzi. Lo scrissi nei primi anni duemila dopo avere letto un lungo e affettuoso amarcord di Alfredo Castelli, che di quel settimanale fu una delle colonne. 


Alfredo Castelli lo ha chiamato "il settimanale irripetibile". E non senza motivo: ci fu un periodo in cui i più grandi talenti del fumetto italiano lavoravano per la stessa pubblicazione: Il Corriere dei Ragazzi, su cui ogni settimana si alternavano le firme di Battaglia, Pratt, Bonvi, Alessandrini, Di Gennaro, Bottaro, Breccia, Chendi, Tacconi, Jacovitti e molti altri ancora. Una concentrazione di talenti che non si sarebbe mai più verificata nella storia dell'editoria a fumetti italiana. Come era stato possibile quel piccolo miracolo?

L'anno magico fu il 1972. Il Corriere della Sera era l'editore del Corriere dei Piccoli: un settimanale storico, nato nel 1908, che aveva pubblicato e continuava a pubblicare il meglio dell'illustrazione e del fumetto per bambini. Molti personaggi del Corriere dei Piccoli - come il signor Bonaventura, il sor Pampurio, Marmittone - erano entrati nella storia del costume. Ma quella, nel decennio dei settanta così gravidi di cambiamenti, era storia passata. Ora l'idea era di rivolgersi a un pubblico fatto non più di bambini. O comunque, di cominciare a trattare i bambini non come adulti sempliciotti, ma come gli adulti maturi di domani.

Già tra la fine degli anni sessanta e i primi anni settanta il "Corrierino" (come era chiamato confidenzialmente Il Corriere dei Piccoli), diretto da Carlo Triberti, aveva pubblicato fumetti maturi (faccio un solo titolo: La Ballata del Mare Salato di Hugo Pratt). C'era un cambiamento nell'aria, e anche il mondo del fumetto ne prendeva atto. Per una di quelle combinazioni che capitano una volta nella vita, nei primi anni settanta si formò all'interno di una casa editrice una sinergia felicissima: quella tra un gruppo di professionisti preparati ed entusiasti del loro lavoro, e una dirigenza convinta della possibilità di fare dell'editoria di qualità per i ragazzi.

domenica 5 luglio 2015

CHRONICLES, L'AUTOBIOGRAFIA DI BOB DYLAN

A dieci anni dall'uscita italiana di Chronicles, l'autobiografia di Bob Dylan, ripesco l'articolo che scrissi all'epoca sul mio sito. Faccio notare che il titolo intero del libro era Chronicles - Volume One. Il Volume Two lo stiamo ancora aspettando. 




Ogni biografia di una rockstar deve pagare il tributo alla favola del rock. Deve raccontare gli inizi difficili, le prime affermazioni, il disco decisivo, quello della svolta, e poi confermare la consacrazione nel tripudio degli affetti familiari. Ma Chronicles – Volume 1, l’autobiografia di Dylan, sfugge a ogni percorso prestabilito: quando c’è di mezzo Dylan, la distanza più breve tra due punti non è una linea retta, ma una spirale. Più che una autobiografia, Chronicles è il resoconto di un viaggio interiore che procede per associazioni ed ellissi, avanti e indietro nel tempo.

Dylan prende le mosse dal suo arrivo a New York nel 1961, in quell’inverno gelido cantato in Talking New York, nel suo disco di esordio.

Inverno a New York/ il vento spruzzava neve dappertutto/ (…) il New York Times diceva che era l’inverno più freddo da diciassette anni/ ma io non avevo così freddo allora.

Che il giovane Robert Zimmermann non facesse caso al freddo è poco ma sicuro. C’era molto di più che nevischio, nell’aria della metropoli. Tutto era in movimento e cambiava velocemente, anche la musica. Il rock adolescenziale era a una svolta: la musica folk – proprio grazie a Dylan - si accingeva a riscriverne i connotati. Dopo, niente sarebbe stato più lo stesso. Il Greenwich Village – pieno di caffè, circoli letterari, ritrovi di studenti, intellettuali, artisti bohémiens, era l’epicentro di quel cambiamento epocale. Dylan – che vi arrivava nemmeno ventenne, dopo un soggiorno a Minneapolis - ne rimase ipnotizzato.
A distanza di tanti anni, il musicista offre di quel Village un ritratto vivido, ricco di squarci pittoreschi. Le nottate passate ad ascoltare la radio. La scoperta di certi libri, di certi musicisti. L’incontro con il suo idolo Woody Guthrie, minato dal morbo di Huntington e confinato in un ospedale. I primi concerti nelle coffee houses.

Ma, sorprendentemente, Dylan glissa del tutto sulla sua scalata al successo negli anni dal 1962 al 1966, l’anno dell’apoteosi, di Blonde on Blonde – disco seminale nella storia del rock – e di quell’incidente in motocicletta che segnò la fine del “primo” Dylan, quello della protesta.
Il musicista dedica molte pagine, invece, al periodo immediatamente successivo. E in particolare ai suoi tentativi di sbarazzarsi dell’etichetta di “profeta” e di “portavoce di una generazione”, termini che afferma di avere sempre detestato.